Lo spettacolo nasce dal dialogo tra due amici di vecchia data: un antropologo (Duccio Canestrini) e un attore (Giovanni Battaglia). Se fosse un viaggio, sarebbe un dirottamento: più che sviluppare dei temi, li avviluppa. In effetti lo si può considerare il diario di un libero pensatore, dove la sfera privata e quella sociale si intrecciano continuamente, così come i registri: il dramma, la comicità. Il protagonista è uno sfollato dalla pazza folla, un cinquantenne caparbio che combatte contro il pensiero unico. Gli anglofoni lo direbbero HTQ, hard to qualify, difficile da inquadrare. Pezziduomo si snoda in sette monologhi che durano tra i cinque e i dieci minuti ciascuno. Ogni monologo tratta un argomento specifico e lo si potrebbe considerare come uno dei pezzi dell’uomo che si racconta. Il nostro registro non è quello del teatro tradizionale, non è cabaret, non è un oratorio civile. È piuttosto uno spazio interiore, un luogo dove pensare le nostre domande, dove mettere a nudo le fragilità, le contraddizioni della vita quotidiana. Lo spettacolo, le cui atmosfere sono raccontate dalle musiche originali di Giusi Bisantino, fa anche ridere, certo, ma la comicità non è usata come arma di distrazione di massa. È invece funzionale ad alleggerire la fatica della resistenza umana, con la voglia di interrogarsi sugli scenari possibili: quelli attuali, quelli che vedranno i nostri figli
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